Disclaimer

Disclaimer:



Il contenuto di questo sito è di proprietà esclusiva di Francesco Checcacci. Tutto il contenuto può essere utilizzato ma è obbligatorio citare la fonte.
I punti di vista espressi sono dell'autore e non riflettono opinioni di organizzazioni di cui l'autore stesso potrebbe far parte.







The content of this website is the exclusive property of Francesco Checcacci. All content can be utilised as long as the source is referenced. The opinions expressed are the author's own and do not reflect views of organisations with which the author maybe associated.



Saturday 16 March 2013

LA TORTA E LE FETTE: Mercantilismo, redistribuzione e teorie del complotto




Pochi forse ricordano che a partire dal Rinascimento e fino almeno alla Rivoluzione Francese gli Stati misero in atto una politica cosiddetta ‘mercantilistica’.

Le monarchie dell’Europa post feudale erano convinte che per creare uno Stato potente bisognasse accumulare molto oro, e che questo si potesse fare controllando una quota sempre più grande del commercio mondiale.

Essenzialmente, come fa notare Ian Bremmer, uno dei massimi esperti mondiali di relazioni internazionali, questo poggiava su due ipotesi sbagliate:

La prima ipotesi era che la ricchezza corrispondesse alla valuta (che allora era aurea) e che bastasse quindi incrementare l’offerta di valuta per aumentare la ricchezza. Se questo sembra qualcosa di sentito recentemente è perché lo è, e ce ne siamo già abbondantemente occupati. Facciamo solo notare a corollario adatto all’epoca di massima applicazione del mercantilismo che la Spagna iniziò ad importare quantità impressionanti di oro dalle Americhe e che la conseguenza diretta fu che per un periodo l’argento valeva più dell’oro. Se qualcuno pensasse che questo fosse dovuto all’inflazione avrebbe ragione.

La seconda ipotesi era che il commercio internazionale fosse fisso, e che quindi per catturarne una quota l’unico modo fosse sottrarla ad altri. Questo portò tra l’altro a vari conflitti armati (per cui le relazioni internazionali di quell’epoca e di quella immediatamente successiva vengono talvolta ricordate come ‘diplomazia delle cannoniere’), oltre che alla creazione di vari monopoli concessi dai vari monarchi a gruppi a capitale pubblico, privato o misto. Alcuni esempi per tutti le celeberrime Compagnie delle Indie Orientali ed Occidentali. Che poi i monopoli suddetti abbiano portato ad una corruzione molto estesa è un fatto storico inoppugnabile.

Altro fatto storico inoppugnabile è che invece con l’apertura dei commerci i volumi scambiati aumentano e che solitamente tutti i Paesi che ne prendono parte diventano più ricchi. Lo sappiamo non dal tempo di Adam Smith, ma da quello di Senofonte, che purtroppo pochi adesso leggono al di fuori dei Licei Classici, e anche in questi istituti si rifugge dai testi economici. Altro discorso è che la crescita della ricchezza non sia ugualmente distribuita, ma dipende, in poche parole, dalla capacità di fare cose che il mondo vuole comprare. E’ essenzialmente questo il motivo per cui alcune imprese italiane e francesi del settore auto patiscono (non fanno auto che il mondo vuole), mentre la Ferrari non ha certo problemi a pagare gli operai, che con la loro alta artigianalità sono infatti una delle fonti di vantaggio competitivo della casa di Maranello (Solow docet).

Ma concentriamoci sull’idea che l’economia, come il commercio, sia una grandezza fissa. Su quest’ipotesi, più o meno consapevolmente, poggiano moltissime idee di quelli che ormai da tempo abbiamo battezzato Lorsignori.

Lorsignori partono da questa idea quando vorrebbero convincerci che mandare in pensione i vecchi crea posti di lavoro per i giovani, quando invece è la maggior ricchezza prodotta che crea la domanda che sostiene il lavoro. Anche di questo ci siamo già occupati in un post precedente: se fosse vero quello che sostengono Lorsignori, nessun lavoro produrrebbe alcun valore; a parte il fatto che questo è apertamente un discorso senza senso, anche lo stesso Marx parte nel Capitale dall’idea che lavoro sia uguale a valore. La stessa ipotesi di fondo, poi, sottostà all’idea che si debbano introdurre barriere commerciali per proteggere questa o quella categoria, se non addirittura ‘la base industriale’. A parte il fatto che la base produttiva si protegge innovando e specializzandosi per, appunto come sopra, ‘fare cose che il mondo vuole’, anche la stessa idea di proteggere un’industria crea una situazione per cui i cittadini di uno Stato protezionista pagano per mantenere un privilegio ad una parte di aziende che così non sono neanche spinte a migliorare, rendendo sempre maggiore la quota pagata da tutti. In Italia purtroppo sappiamo che situazioni in cui molti pagano i privilegi di pochi sono così diffuse da aver minato le basi di una sana e prudente gestione anche dello Stato stesso.

Abbiamo visto che la torta (l’economia nazionale ed internazionale, ma anche il commercio mondiale) NON è fissa e che a seconda di come si fanno le fette questa può diventare più o meno grande.

L’applicazione più interessante del principio della torta e delle fette è comunque quella delle varie teorie del complotto che si alimentano spesso dei peggiori pregiudizi.

L’idea è più o meno che ci sia un gruppo di persone, vicino a grandi aziende e banche d’affari multinazionali, che tira le fila dell’economia e della politica mondiale. Ultimamente poi si dice che questo gruppo (generalmente possiamo chiamarlo anche ‘la cupola dei ricchi’) abbia creato una serie di strumenti, tra cui l’Euro e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, per condurre una sorta di lotta di classe post-marxista a danno degli altri, poveri ma soprattutto classe media. Questi strumenti porterebbero al progressivo impoverimento della classe media per permettere ai ‘ricchi’ di catturare una percentuale maggiore della ricchezza mondiale.
Perché quest’idea funzioni bisogna che una di due condizioni si verifichi: o la torta è appunto fissa o almeno la diminuzione della classe media non ne influenza la grandezza presente, ma soprattutto futura. Infatti Lorsignori sostengono che ‘i ricchi’ sono organizzatissimi e guardano molto lontano.

Abbiamo già visto che la torta non è fissa, quindi non ci resta che vedere se la classe media abbia o meno impatto sulla crescita economica.

Ebbene vari studi, tra i tanti quelli del Dartmouth College e di Yale, dimostrano invece che la classe media non sia conseguenza, ma motore stesso della crescita economica, in particolare nei Paesi sviluppati. Ovviamente poi la stessa classe media è la maggior produttrice di risparmio e consumatrice di prodotti ad alto valore aggiunto come quelli elettronici, per cui sia le banche che la multinazionali hanno interesse a che esista.

L’ipotesi della ‘cupola dei ricchi’, per reggere, avrebbe essenzialmente bisogno che questa stessa cupola non fosse in grado di effettuare calcoli di valore temporale su progetti, ovvero prevedere flussi di cassa o di ricchezza futuri e scontarli a valore attuale. Peccato che i vertici di banche d’affari e multinazionali facciano questo di mestiere, come saprebbero anche Lorsignori se avessero mai lavorato in una di queste istituzioni o almeno avuto studi adeguati.

A corollario facciamo anche notare che una politica di redistribuzione del reddito attraverso la fiscalità, oltre a prestarsi a manipolazioni più o meno corruttive, farebbe diminuire la torta in quanto tutti i Governi che, a livello mondiale, hanno promesso di tassare i ricchi, quando hanno alzato le tasse lo hanno fatto sulla classe media. Inoltre la logica imporrebbe come mezzo di equità non una redistribuzione (che per definizione avviene ex post), ma una vera meritocrazia che renda possibile il miglioramento della condizione sociale dei migliori. Il motivo per cui questo non viene fatto è che ciò implicherebbe per forza di cose il peggioramento della condizione sociale dei peggiori, e siccome spesso gli amici degli amici di certi politicanti hanno posizioni non giustificate dal loro merito Lorsignori non gradiscono.

Infine per la bellissima metafora della torta non ringrazierò mai abbastanza il mio vecchio Professore dell’Università di Firenze Carlo Vallini, mente eccelsa con irresistibile senso dell’umorismo di marca tipicamente toscana.

Saturday 9 March 2013

Ce lo chiede l’Europa: la coscienza sporca dei politici del Sud Europa.




Quante volte abbiamo sentito ripetere il noto mantra: ‘ce lo chiede l’Europa?’

Anche prima della crisi i politici italiani lo hanno ripetuto allo sfinimento, soprattutto per implementare misure di aumento della pressione fiscale.

Lo stesso, ma con maggior frequenza, abbiamo sentito ripetere in periodo di crisi. Una comunicazione simile è stata diffusa da tutti i politici di Paesi incapaci o poco pronti a fare riforme strutturali come scusa per aumentare la pressione fiscale.

Ma cosa chiede l’Europa davvero a chi è in difficoltà?

Intanto non risultano vere e proprie imposizioni, quanto piuttosto indicazioni basate sull’esperienza di comportamenti che hanno portato ad effetti positivi in casi precedenti. Per lo più chi consiglia austerità non pensa ad un aumento delle tasse, ma ad una riduzione non sporadica della spesa e a riforme strutturali che, rendendo meno onerose in termini di tempo e denaro le iniziative imprenditoriali, richiamino investimenti interni ed esteri dando slancio all’economia.

Questo nella piena consapevolezza che le tasse deprimono l’economia al punto che le entrate dello Stato vanno a diminuire (curva di Laffer o riduzione della domanda aggregata dicono la stessa cosa), ma anche i tagli della spesa hanno nel breve termine effetto di contrazione. Questo effetto è però di gran lunga inferiore a quello di nuove tasse, come ampiamente dimostrato da studi dell’Università di Harvard condotti principalmente dall’italiano Alberto Alesina. Da qui le riforme che aiutino a compensare gli effetti recessivi della politica fiscale. Eventuali dismissioni di patrimonio statale possono avere il doppio effetto di aiutare a ridurre gli impatti restrittivi di cui sopra e, nella migliore delle ipotesi, mettere a maggior frutto le potenzialità che lo Stato, per mancanza di mezzi o di competenze, non è in grado di sfruttare.

Perché dunque si è scelto di aumentare la pressione fiscale, pur conoscendone gli effetti recessivi?

Perché ridurre gli ambiti dello Stato significa ridurre il potere dei politici di distribuire commesse, dirigenze e varie prebende a coloro che li sostengono con i loro voti o con le loro donazioni.

Allo stesso modo rendere efficiente il sistema economico significa rimuovere le rendite di posizione delle quali si alimentano altri sostenitori degli stessi politici.

Quindi se i politici facessero quello che ‘ci chiede l’Europa’ (ma per davvero) perderebbero l’appoggio politico e finanziario su cui poggia il loro potere, con solo vantaggio per i cittadini comuni.

Va da sé che per vincere le guerre (e non le battaglie) si tagliano i rifornimenti al nemico, e i politici incapaci lo sanno benissimo.

L’esempio più tragico di una situazione simile è la Grecia, in cui i politici si sono rifiutati per anni di diminuire prebende e sprechi, preferendo aumentare le tasse e precipitando il Paese in una spirale recessiva da cui è difficile uscire. Solo molto recentemente, messi con le spalle al muro e quando forse era già troppo tardi, hanno iniziato ad agire con criteri meno dannosi.

In altre parole coloro che impongono livelli maggiori di tassazione dicendo ‘ce lo chiede l’Europa’ fanno danno due volte: una perché non fanno quello che viene consigliato per il bene di tutti pur di mantenere il potere per loro e per gli amici dei loro amici, l’altra perché gli elettori, a forza di sentirsi ripetere il mantra, hanno finito per identificare l’Europa con una politica di rigore principalmente basata su nuove tasse, con il bel risultato di far guadagnare voti a chiunque tuoni contro l’Europa, magari promettendo mari e monti in caso di aumento del perimetro dello Stato, inclusa la politica monetaria, senza pensare che le conseguenze di un’uscita dall’Euro e di un aumento della spesa di Stato farebbero impallidire quanto visto finora.