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Friday 21 December 2012

La stampa di moneta, le bolle speculative e la corazzata di Fantozzi




Si sente da più parti affermare che il problema dell’economia di oggi sia il ricorso a valute non sostenute da valori tangibili, e/o che sia la stampa di moneta creata dal nulla (o grazie ad una partita di giro con titoli di Stato, che indebiterebbe artificialmente tutti i cittadini) a creare inflazione e bolle speculative in alcuni settori.

La prima affermazione implica che prima dell’invenzione della carta moneta non sarebbero esistite svalutazioni con iperinflazione.

La seconda che qualora si attuassero svalutazioni, non ne conseguirebbe inflazione purché sia lo Stato stesso, e non la Banca Centrale, ad occuparsi della stampa di moneta, eliminando la partita di giro vista sopra.

Cominciamo dalla prima affermazione: episodi di iperinflazione esistono storicamente anche prima della diffusione della cartamoneta, avvenuta notoriamente in Cina intorno all’undicesimo secolo D.C. durante la dinastia Song.

Il primo episodio di iperinflazione di cui si ha notizia risale infatti all’imperatore romano Diocleziano, tra il 216 e il 218 D.C. Diocleziano finanziò opere pubbliche civili e militari con la stampa di monete di bronzo, effettivamente svilendo il valore della moneta in circolazione e moltiplicando la base monetaria. Risultato: inflazione fuori controllo e disastro economico, che  l’Imperatore provò a correggere imponendo controlli di prezzo (pena la morte a chi vendeva sopra i prezzi imposti). Siccome la conseguenza di questo fu il fallimento di molte imprese, che dovevano vendere  sottocosto, Diocleziano pensò bene di imporre a chiunque di fare il lavoro del proprio padre, di nuovo pena la morte per i contravventori (aveva evidentemente poca fantasia). Ecco come la buona intenzione di stimolare l’economia e rafforzare lo Stato risultò nell’asservimento di tutti i sudditi dell’Impero. Per inciso quest’episodio (e molti di quelli successivi) mostra chiaramente come non serva affatto un ente privato che intasca il signoraggio (cosa che non avviene neanche oggi, vedi http://lettotralerighe.blogspot.it/2012/10/babbo-natale-e-la-macchina-dei-soldi.html) per creare iperinflazione.

Molti episodi successivi ebbero dinamiche simili, provocando direttamente o contribuendo a conseguenze come guerre di conquista, guerre civili, rivoluzioni, depressioni economiche ed altre amenità. Hayek (quanto ci manchi zio Friedrich!), che aveva vissuto qualcosa di simile in Austria, non a caso descrisse bene il processo nel suo ‘Road to Serfdom’, che dovrebbe essere lettura obbligatoria in tutte le scuole dell’obbligo. Invece i diritti delle opere del grande austriaco furono acquisiti da una casa editrice italiana con l’espressa intenzione di non darli mai alle stampe in traduzione. Fortunatamente in molti oggi leggono l’inglese senza problemi. Per questi i libri di Hayek sono disponibili insieme a molti altri (gratis!) qui: http://mises.org/Literature.

Altri episodi di iperinflazione, precedenti e successivi all’introduzione della cartamoneta, sono:

Impero Bizantino, sotto Costantino IX Monomaco (1042-1055), che svalutò la valuta di riserva mondiale dell’epoca, il Bisante, per finanziare guerre.

Filippo IV il Bello (1268-1314), che dopo aver più volte svilito il valore della moneta, si impossessò di tesori altrui (l’episodio è notissimo) e risolse il problema essenzialmente condannando a morte i creditori. Per chi pensa che questa sia una buona idea, notiamo che il maggior creditore dello Stato italiano sono le famiglie italiane che hanno comprato BOT e BTP, ovvero la maggior parte dei cittadini.

Mississippi bubble (1719), creata in Francia da John Law, il primo vero teorico della moneta esclusivamente mezzo di scambio (come si vede la Modern Monetary Theory non è affatto moderna). Lo Stato francese era essenzialmente in bancarotta a causa della grandeur del Re Sole, che lasciò le casse vuote.

Altri episodi seguono:

Rivoluzione francese (1789-1795)

Stati confederati durante la Guerra Civile americana (1861-1865)

Germania 1920-1923 (deflazione ed iperinflazione di Weimar)

Russia, Austria, Polonia, Ungheria tutte nei primi anni 20.

Per evitare di maramaldeggiare citeremo solo collettivamente ed en passant gli episodi durante e dopo la seconda guerra mondiale e quelli tristemente famosi dello Zimbabwe, di cui abbiamo già parlato, e dell’America Latina in anni più recenti. Questi ultimi hanno peraltro portato spesso a dittature militari particolarmente sanguinarie.

Veniamo dunque alla seconda affermazione: abbiamo già visto come un’inflazione fuori controllo può essere creata benissimo anche quando è lo Stato stesso ad occuparsi della creazione di moneta, e anche quando e se questo è uno Stato con Governo eletto dal popolo. Sarebbe infatti facile affermare che era il dittatore o regnante di turno a prendere per se’ i proventi del signoraggio a spese del popolo inerme. Ovviamente non è così.

Conclusione: la MMT, che abbiamo visto non essere moderna e per di più non è neanche una teoria, può essere tranquillamente accostata alla Corazzata del famoso film di Fantozzi. E ora chissà cosa inventeranno Lorsignori per argomentare che, contro logica e precedenti, le cose non stanno ‘esattamente così’ o, ancor più classicamente, che ‘il problema è un altro’. Sentiamo già in sottofondo il rumore di frizione particolarmente fastidioso prodotto dal futile tentativo di arrampicata su specchi, sport particolarmente diffuso nei circoli ‘alternativi’, accademici e non.

P.S. Per chi fosse interessato a leggere un articolo di un’università seria (quella di Rotterdam) in materia di bolle speculative, invece di ascoltare i soliti quattro sfigati di istituzioni accademiche di infima serie: http://people.few.eur.nl/smant/m-economics/bubbles/johnlaw.htm. Consigliamo un occhio di riguardo alle conclusioni, simili a quanto affermato qui ed in precedenza da noi.

Riportiamo qui un passaggio particolarmente significativo dell’articolo: ‘As every financial economist today would know, announcing a future value for a durable asset such as shares, exchange rates, etc., and therefore changing expectations of future value, must have an immediate effect on its current value. Except for the value of time (discount rate), the current price will immediately adjust to the expected future value; there can be no gradual adjustment in asset prices. This is exactly what happened at the end of May 1720.’

Evidentemente Lorsignori non sono economisti finanziari, ma questo lo sapevamo. Il peggio è che non sono evidentemente neanche economisti. Infatti i maggiori propugnatori della Corazzata di cui sopra sono psicologi, avvocati o, quando va bene, laureati in ‘scienze’ politiche.


Sunday 2 December 2012

Lorsignori, Friedman e i processi alle intenzioni


Chiunque abbia un’infarinatura di diritto penale sa che, fin dall’antichità, per ottenere una condanna l’accusa deve provare due elementi: l’acuts reus e la mens rea.

Vari testi più o meno riconducibili al coacervo (sarebbe forse più preciso dire accozzaglia, ma poi ci accuserebbero di argumentum ad hominem, e noi Aristotele l’abbiamo letto) di movimenti che abbiamo ormai preso l’abitudine di chiamare Lorsignori hanno attaccato le dottrine della Scuola di Chicago (con la quale per inciso personalmente non sono d’accordo su tutto) in quanto colpevoli, attraverso un processo di ‘shock and awe’ (termine di Lorsignori), di aver smantellato la spesa sociale in vari posti del mondo, inclusi gli Stati Uniti. Tale processo sarebbe stato portato avanti in particolare durante la presidenza Reagan. Limitiamoci per carità di patria a questo episodio, anche se sia chiaro potremmo maramaldeggiare citando il caso russo (dov’erano i fautori del libero mercato? Piuttosto c’erano faccendieri per lo più legati alla vecchia intelligentsia sovietica, in particolare Armata Rossa e KGB) e quello cinese (dopo Tienanmen le riforme liberalizzatrici furono fermate per anni, non certo implementate).

Andiamo quindi ad analizzare i due elementi che l’accusa deve provare.

Mens rea: non ci risulta che Friedman o alcun altro esponenti della scuola di Chicago, ne’ per questo nessun altro economista, abbia mai teorizzato l’utilizzo strumentale di vari disastri, figuriamoci poi la loro creazione ad arte, con l’intenzione di imporre questa o quella politica. Per la verità c’è un’eccezione, che vedremo in fondo.


Seguendo lo stile di Lisia, ammettiamo però, dopo averne dimostrato l’inconsistenza, che la mens rea effettivamente sia esistita e passiamo al dato saliente, ovvero l’actus reus.

Actus reus: facciamoci la domanda più importante: la spesa sociale negli Stati Uniti è diminuita sotto Reagan? La risposta è nel grafico qui sotto (fonte: heritage foundation http://www.heritage.org/research/testimony/the-size-and-scope-of-means-tested-welfare-spending), che dimostra non solo che la spesa sociale non è diminuita sotto Reagan, ma che non è proprio diminuita mai, almeno dalgi anni cinquanta. In caso qualcuno se lo chiedesse, anche la spesa totale dello Stato non è mai diminuita, ma non ci siamo limitati a far notare questo dato che la spesa statale comprende le spese militari.




Verdetto: mancando l’actus reus Friedman e tutti gli altri sono assolti, come direbbe la formula giuridica italiana, con formula piena, ovvero per non aver commesso il fatto.


Note a margine: ci preme far notare intanto che evidentemente l’accusa si è basata su idee sue proprie, presumibilmente generate da avvenimenti con nessi di causalità almeno dubbia (per inciso la mancanza del nesso di causalità inficierebbe anche la richiesta di risarcimento in sede civile) e ha scritto senza neanche avere la decenza di verificare i dati. Non possiamo non notare l’analogia tra questo modo di fare ed il modo di pensare di certi laureati in ‘scienze’ politiche, alcuni dei quali hanno occupato gli scranni del Parlamento in epoche più o meno recenti. E’ chiaro che questa particolare sottocategoria di Lorsignori tende a farsi un’idea basata su pochi casi, e ad innamorarsene al punto da non avere nemmeno lo scrupolo di verificarla. Per questo la parola ‘scienze’ è tra virgolette: il metodo scientifico impone la verifica empirica.


Altra considerazione è che, purtroppo, esiste una ‘cultura’ giuridica che ammette che la sola mens rea sia sufficiente alla condanna. In sostanza si tratta di processi alle intenzioni, ederitati dalle epoche più buie e riesumati dalle peggiori dittature del ventesimo secolo. Questi metodi furono utilizzati infatti sia nella Germania nazista che nell’Unione Sovietica, a partire dalle purghe staliniane, e in alcuni dei Paesi satelliti dell’URSS.

Almeno i tedeschi, che hanno una tradizione di capriole di teoria giuridica da far sembrare i bizantini dei principianti iniziata con la faccenda della translatio imperii che giustificò il Heilige Römische Reich Deutscher Nation, avevano teorizzato che il Führer era depositario non solo della Volkswille, ma anche del Volksgeist, giustificando così ogni atto nazista come emanazione diretta del popolo tedesco (non quindi solo in nome e per conto del popolo, ma proveniente direttamente dal popolo. E poi i tedeschi accusano gli italiani di cercare scuse! ).


I sovietici, notoriamente meno acculturati, non si giustificarono nemmeno.Per un esempio di come il processo alle intenzioni di staliniana memoria sia stato utilizzato a ditanza di anni nei Paesi satelliti, consigliamo la lettura di  Žert (lo scherzo) di Kundera più che del famoso Processo di Kafka.

E adesso l’eccezione di cui parlavamo prima: praticamente l’unico esempio di ‘shock and awe’ è Karl Marx, che teorizzava la rivoluzione per imporre il comunismo attraverso una fase di dittatura del popolo. In questo caso purtroppo è anche notoriamente, e tragicamente, presente l’actus reus della rivoluzione russa. A parte che abbiamo difficoltà a considerare Marx un economista, facciamo ricorso alle scienze comportamentali che ci dicono come ognuno tenda a predire il comportamento altrui attraverso quello che egli stesso farebbe in una situazione simile. L’esempio è il cane che, tenendo un osso sbavato tra le zampe, al vedere il padrone avvicinarsi ringhia perché pensa che l’uomo voglia toglierlo al cane per rosicchiarlo lui. In altre parole i marxisti, abituati ad imporre le loro idee in punta di fucile, penserebbero che anche gli altri facciano lo stesso. Questa però è solo un’ipotesi da verificare empiricamente: è preferibile infatti la verifica empirica delle idee, di cui è bene non innamorarsi tanto da difenderle contro la prova contraria.

Friday 16 November 2012

Del moltiplicatore, ovvero perché tagliare spesa e tasse è meglio di tassare e spendere



Negli ultimi tempi si sente molto parlare di una visione alquanto equivocata dei predicamenti di Lord Keynes.

Partiamo con l’enunciarli e spiegare perché non hanno senso, per poi passare al perché questi argomenti non hanno neanche molto a che vedere col pensiero di Keynes stesso.

La ricetta proposta da più parti per uscire dalla crisi è essenzialmente più spesa di Stato.

Va da se’ che lo Stato da qualche parte i soldi deve trovarli. E allora le fonti sono essenzialmente 3. Ne vedremo dopo una quarta.

1-      Aumentare le tasse. La pressione fiscale ha raggiunto in Italia un punto eccessivo, esemplificato dal fatto che un aumento della pressione fiscale oggi porta ad una diminuzione delle entrate dello Stato.  Avvertenza ai politico-tecnici: il moltiplicatore non è fisso e le elasticità nemmeno (v. sotto), ripassate Laffer

2-      Prendere a prestito. La situazione in Italia è che lo Stato paga il 5% per finanziarsi e il debito va ridotto: anche chi non pensasse sia il caso deve fare i conti con il costo del debito, e non può non convenire che chi prende a prestito al 5% deve trovare investimenti che rendano di più. Dove sono?

3-      Stampare moneta. A parte che adesso la creazione di moneta è in carico alla BCE, c’è chi dice che se lo Stato prendesse il controllo delle presse da stampa, il problema sarebbe risolto. Sono coloro che credono nella macchina dei soldi di Babbo Natale (e di questi ci siamo occupati precedentemente. Si veda http://lettotralerighe.blogspot.it/2012/10/babbo-natale-e-la-macchina-dei-soldi.html). In sintesi è la via seguita dallo Zimbabwe e ancor prima dai vari John Law (Mississippi bubble): se ci fossero dubbi non finisce mai bene

Essenzialmente queste tre strade non sono percorribili al momento.

Ne esiste però una quarta, e cioè ridurre la spesa di Stato. Lorsignori (sempre loro sono) pensano, talvolta in buona fede, che riducendo gli sprechi si possano liberare risorse (e fin qui hanno ragione) da destinare a nuova spesa di Stato.

Adesso siamo chiari: se lo Stato tassa per spendere (o per investire, come dicono Lorsignori, ma il meccanismo è lo stesso) un euro deve passare per la macchina statale che incassa (l’autorità fiscale) e poi per la macchina statale che lo investe (di solito enti parastatali o ministeri). Al momento in cui questo euro arriva ad essere speso, va bene se è dimezzato (in effetti oggi lo Stato controlla il 55% del PIL: presumendo che il costo per unità di prodotto sia costante, un euro sarebbe ridotto a circa 50 centesimi all’atto di investirlo).

Naturalmente se invece quell'euro fosse risparmiato si eviterebbe il passaggio per la macchina di riscossione, ma dovrebbe comunque passare per quella di allocazione. L’euro sarebbe quindi (presumendo che le due macchine costino la stessa cifra) circa 75 centesimi (arrotondiamo per semplicità).

Adesso un passaggio logico abbastanza facile: se invece di dover spendere per spendere (effettivamente è così dato che c’è una macchina che alloca le risorse, e questa costa soldi) se l’euro risparmiato viene retrocesso ai cittadini ed alle imprese in forma di minori tasse, ecco che invece di 75 centesimi ridiventa un euro intero! Consideriamo anche che, anche se la macchina statale non costasse niente (o se fosse vero che l’euro non tassato non avesse costi, che è l’argomento principe dei sostenitori della spesa), gli impiegati pubblici sono meno produttivi di quello privati in ogni parte del mondo. Per l’Italia il differenziale di produttività è circa del 40% (dati Corte dei Conti, non un ente propriamente liberista).

Vedete signori keynesiani: questo semplice ragionamento è IL motivo per cui il moltiplicatore positivo è un mito. Se n’era accorto Barro, se n’era accorto Friedman e ancora prima se n’era accorto Hayek. Lo sa anche Stiglitz, ma fa finta di non accorgersene (in uno dei suoi paper più noti esplicita chiaramente di ipotizzare che il costo pubblico e privato sia lo stesso: evidentemente sa che non è così).

Quanto al punto finale, ovvero quanto di quello proposto da Lorsignori sia in linea con il pensiero di Lord Keynes, si consideri che per l’economista inglese va bene che lo Stato abbia un deficit durante una recessione (per compensare il calo della spesa da parte dei privati), ma a patto che (e qui casca l’asino) abbia risparmiato il surplus nei tempi di espansione economica. Succede che l’Italia, ma anche praticamente tutti gli Stati sviluppati, abbia non solo speso tutto, ma anche preso a prestito. Adesso per aver speso troppo ci troviamo in difficoltà a ripagare il debito. Non è forse logico che i creditori richiedano un rendimento maggiore in virtù del maggior rischio che si accollano prestandoci? E Lorsignori continuano a dar la colpa alla speculazione brutta e cattiva: da che mondo è mondo chi paga i suonatori sceglie la musica, perciò chi vuol mantenere spazi intatti di sovranità deve accettare che questo passa per una riduzione del debito. A quel punto l’orchestra la pagheranno i cittadini, e potranno decidere se ascoltare Bach o Vivaldi (o Beethoven o Verdi, a seconda dei gusti).

Nota a latere sulle elasticità diverse e non costanti: i dati dimostrano (v. vari studi di Alesina) che l’economia risponde in modo diverso a riduzioni del debito attuate con l’aumento delle tasse a quelle attuate con la riduzione della spesa. In particolare la riduzione della spesa fa contrarre meno il PIL di quanto non lo facciano nuove tasse.

Ci sarebbe poi anche l’argomento, indirettamente proposto da Laffer, secondo il quale aumentare le tasse porta ad effetti progressivamente peggiori sulla crescita, ovvero per ogni punto di aumento delle tasse l’impatto negativo è maggiore di quello del punto precedente. Questo però è un altro argomento, ed è anche più complesso (in sintesi si può dimostrare attraverso l’uso delle real options, o opzioni reali, come fa ultimamente Merton, ma la comprensione dei passaggi presuppone conoscenze matematiche alquanto avanzate, e da un lato questa non è la sede, dall’altra la maggior parte di Lorsignori sa a malapena contare). Per ora accontentiamoci di quanto esposto con buona pace del keynesiani, con i quali per quanto visto sopra se Keynes fosse vivo oggi sarebbe molto probabilmente in disaccordo.

Tuesday 23 October 2012

Babbo Natale e la macchina dei soldi



Ci sono adulti che ancora vogliono credere a Babbo Natale, ma almeno hanno la decenza di non volerne spiegare l’esistenza in maniera scientifica.

Invece ci sono alcuni personaggi (li chiameremo Lorsignori, tanto sono sempre gli stessi) che hanno ammantato un ragionamento completamente privo di senso di una parvenza di spiegazione pseudo-scientifica che sembra aver convinto altri personaggi, e ne sta convincendo sempre di più. Il motivo per cui il popolo si fa convincere è che le idee sono populiste. In particolare piace a molti pensare che il debito non sia un problema, e che tutto si possa risolvere con una tecnologia a disposizione dei Governi: la pressa da stampa.

Il ragionamento è più o meno questo: siccome la moneta viene emessa dietro debito, il tutto è una partita di giro. Il motivo, secondo Lorsignori, per cui stampare moneta sarebbe un problema è che la stampa di moneta al momento non viene effettuata dallo Stato, ma da una Banca Centrale che è indipendente dallo Stato, e per di più a capitale privato, che lucra la differenza tra il costo di stampa e il valore facciale della moneta. Questa differenza si chiama ‘signoraggio’.

Cominciamo a chiarire che il meccanismo di creazione monetaria non è quello descritto sopra: intanto è ovvio che se la Banca Centrale emette moneta dietro titoli di Stato, l’utile che deriva è dato semmai non dalla differenza tra costo di stampa e valore facciale delle banconote, ma dall’interesse sul debito di Stato che la Banca Centrale acquista. Ricordiamo poi  a Lorsignori che le Banche Centrali, a parte una quota per le spese, retrocedono i guadagni in eccesso allo Stato stesso. In altre parole semmai è lo Stato, e non la Banca Centrale, che lucra il signoraggio.

Ma diciamo che tutti questi sono tecnicismi e, pur avendo visto sopra che la pars destruens di Lorsignori non funziona, concentriamoci sulla pars adstruens (o construens) del loro ragionamento, ovvero: che facciamo allora?

La proposta di Lorsignori è, in poco spazio: stampiamo moneta a piacere, tanto è tutta una partita di giro.

Va ricordato a Lorsignori che questa ‘strategia’ è stata già utilizzata nel ridente Zimbabwe, che ha portato l’inflazione dal 9% del 1980 a 471.000.000% (avete letto bene: quattrocento settantuno milioni per cento) del 2008. Poi la situazione, nel corso del 2008, è ancora peggiorata.

Il motivo non è che lo Stato, o le Multinazionali, o le Banche sono brutte e cattive.

Il motivo è che la moneta dello Stato, esattamente come il debito pubblico, alla fine, è garantita da garanzie reali o non vale niente.

In altre parole quello che gli anglosassoni chiamano ‘Full faith and credit’ dello Stato rappresenta la ricchezza della Nazione.

Se avviene un aumento della ricchezza creata, è naturale pensare che l’offerta di moneta può essere incrementata. In caso contrario immettere moneta che viene usata per comprare gli stessi beni e servizi che c’erano prima ma con più soldi a disposizione non può che far aumentare i prezzi.

In buona sostanza il succo è: indebitiamoci, così possiamo investire per ripagare il debito. Tolta la parte di mezzo si ha: indebitiamoci per ripagare il debito. Qualsiasi alunno delle Scuole Materne di media intelligenza a cui venisse fatto un discorso del genere da un proprio genitore non potrebbe non chiedersi se al mattino il genitore stesso non abbia per caso confuso la bottiglia del latte con quella del vino.

Un’altra proposta di Lorsignori è evitare di pagare il debito: tirano poi fuori varie forme più o meno creative per i dettagli tecnici del come farlo.

Ebbene ricordiamo che una gran parte dei titoli di Stato è detenuto da risparmiatori cittadini dello Stato stesso. Per inciso in Italia lo stock di debito detenuto da cittadini è particolarmente alto.

Quindi chi va a votare non si faccia abbindolare da chi vuol vendergli i soldi di Babbo Natale: le idee di Lorsignori renderebbero tutti più poveri, o attraverso l’inflazione (che confisca i soldi dei risparmiatori a vantaggio dei debitori), o attraverso la riduzione diretta del risparmio attuata con default o, come par di capire, con una combinazione delle due proposte scellerate con doppio danno per i cittadini.

Wednesday 10 October 2012

Lo stimolo e la crescita (che non arriva)






In molti si chiedono cosa stia succedendo all’economia mondiale, e perché, nonostante gli interventi espansionistici della maggior parte delle Banche Centrali, non si torni alla crescita vista prima della crisi.

Ci troviamo in un momento di riduzione dell’indebitamento mondiale, che era cresciuto a dismisura a causa di tassi di interesse reali troppo bassi originati da meccanismi dannosissimi quali la cosiddetta ‘Greenspan put’. In effetti una politica monetaria espansiva (oltretutto accelerata da un aumento della velocità di circolazione della moneta) senza il contraltare di un aumento della produttività non può che creare inflazione. I meccanismi della crescita sono noti, come lo è la crescita trend (si veda Barro e Sala-i-Martin, Economic Growth). Mantenere una crescita sistematicamente sopra il trend non è possibile: farlo significa poi dover tornare indietro con un aggiustamento fortissimo (a crescita negativa iniziale), iniziato con riduzione della leva (indebitamento) che si riverbera poi in una crescita bassa per un periodo prolungato di tempo. Storicamente tali processi si sono protratti per circa un decennio.

In alcune parti del mondo la leva si è manifestata come debito privato e bancario (come negli USA e UK), in altre come indebitamento di Stato (come in Italia), in altri ancora come un misto. La Spagna è un esempio di leva alta del settore privato e bancario che si sta traducendo in un aumento dell’indebitamento di Stato, come in Irlanda e in modo non dissimile dagli USA, che per adesso hanno deciso di non ridurre la leva di sistema, ma semplicemente di spostare il fardello del debito dai privati allo Stato. Non affrontare il problema di un debito statale in aumento significa solo gonfiare un’altra bolla destinata a scoppiare con conseguente aumento dei tassi a cui lo Stato americano si finanzia e probabile perdita dello status di valuta di riserva mondiale per il dollaro. Queste dinamiche però prenderanno tempo per svilupparsi, e il Governo di Washington ha ancora tempo per trovare soluzioni.

La conseguenza di un alto livello di leva è simile a quella che si avrebbe in un’azienda ad alto indebitamento: essenzialmente un’amplificazione dei risultati. In altre parole i guadagni sono maggiori in caso di rendimenti superiori al costo dell’indebitamento, esattamente come sono maggiori le perdite in caso di guadagni inferiori a tale costo.

Dovrebbe essere quindi evidente che i tassi di crescita visti in un periodo di leva alta erano esagerati, ed essenzialmente ‘presi a prestito’ dalle generazioni future.

In  Europa lo Zeitgeist sembra essere finalmente quello di una riduzione del debito, anche a costo di un PIL inferiore, che riequilibri il fardello tra generazioni a favore dei giovani, che finora hanno pagato più di quanto potevano aspettarsi in servizi dallo Stato per mantenere le promesse che lo Stato stesso aveva fatto alle generazioni precedenti.

Essenzialmente questo porta ad un superamento delle idee neo-keynesiane che invece sembrano andare ancora per la maggiore dall’altra parte dell’Atlantico. Sia chiaro che Keynes stesso non approverebbe una politica economica basata sul mantenimento sistematico di alti livelli di debito e di spesa.

Dovrebbe essere chiaro anche ai proponenti delle teorie cosiddette keynesiane (che in realtà Keynes oggi osteggerebbe) che è inevitabile attraversare una fase di contrazione se si viene da un periodo di crescita mantenuta artificialmente sopra il trend da politiche monetari e fiscali sconsiderate.

Non si può continuare a crescere gonfiando una bolla dopo l’altra e non attendersi conseguenze nel lungo termine. Se è vero che Keynes diceva che nel lungo termine siamo tutti morti, pare che sia morto lui ma il lungo termine è adesso.

E’ difficile che il mondo torni ad una fase di crescita sostenibile ed equilibrata prima di aver visto una riduzione della leva, ovvero dell’indebitamento, che permetta di ripartire da una base ragionevole.

Studi recenti, tra cui il famoso libro ‘This time is different’ di Reinhart e Rogoff, hanno evidenziato come rapporti debito/PIL superiori al 90% sottraggano alla crescita mediamente un 1.5% all’anno.

Sta a noi, adesso, senza cercare scuse per rimandare o dare colpe alla speculazione brutta e cattiva (che andava bene a tutti quando spingeva i prezzi al rialzo) correggere queste storture. Ce lo dice il buon senso, prima ancora di Keynes (non i keynesiani, che continuano a dire che il debito non è un problema, finché non lo diventa: e allora son dolori), Minsky (Stabilising an unstable economy), Hayek (Theory of Money and Credit) e anche, ultimamente, Sedlacek (Economics of good and evil) e Niall Ferguson (The ascent of money).

E chi ha sperperato le risorse delle generazioni di adesso nel passato, per ingraziarsi elettorati che si sono fatti facilmente convincere che ‘i soldi ci sono’, tenga presente che il giudizio della Storia non potrà essere tenero. E sarà ancor meno tenero con chi ancora vive di queste illusioni.

Aumentare il debito costerebbe cifre proibitive, e tutti cominciano a capirlo, aumentare le tasse porterebbe a minori entrate per lo Stato per gli effetti della curva di Laffer (o per il minor reddito disponibile per chi non ama questa teoria), ma soprattutto ricordiamoci di quello che disse Thomas Jefferson:

 "The democracy will cease to exist when you take away from those who are willing to work and give to those who would not."

In Italia c’è bisogno di cambiare la mentalità di chi ancora pensa che tutto sia loro dovuto dallo Stato, che prende a coloro che creano ricchezza per dare a coloro che non lo fanno. E’ ora di finirla.

Friday 3 August 2012

Il debito e la sindrome della colpa all'arbitro



E’ comune in tutto il mondo, ma probabilmente patologico in Italia, dare la colpa di qualcosa di spiacevole a qualcun altro invece di cercare di capire cosa possiamo fare per migliorare la situazione in futuro. Nello sport questo si esemplifica in quello che potremmo chiamare ‘sindrome della colpa all’arbitro’. Quando perde la squadra del cuore è difficile accettare che la sconfitta possa essere stata causata dallo scarso rendimento dei giocatori in campo o semplicemente dalla miglior prestazione degli avversari, e si tende quindi ad incolpare fattori esterni. Il più ovvio tra i fattori esterni è l‘arbitro. Questo non vuol dire che gli arbitri siano perfetti o che non siano talvolta corrotti. Vuol dire però che sarebbe possibile chiedersi cosa fare meglio la prossima volta indipendentemente dai fattori esterni, proprio perché questi si suppongono non controllabili.

Una delle semplificazioni più comuni è ritenere che se uno non ha partecipato allo spendi e spandi degli ultimi 40 anni circa non ne abbia in qualche modo beneficiato.
E' certamente vero che i pensionati baby, gli assunti in eccesso della PA e i volponi in generale hanno beneficiato più degli altri.
Questo però non vuol dire che un clima di crescita 'presa a prestito' dal futuro attraverso l'indebitamento eccessivo (in Italia dello Stato, in altri posti del settore privato) non abbia beneficiato anche chi si è ben comportato. Infatti i salari sono stati più alti, i servizi meno costosi e i benefit più ampi di quanto ci potevamo permettere, e questo ha beneficiato tutti.

Se poi si vuol dire: è giusto che, per esempio, si dimezzino le pensioni di chi si è ritirato a 40 anni, questo non è sbagliato, ma non credo andrebbe molto bene ai sindacati.
Aumentare le tasse ai 'ricchi' invece è al momento sbagliato se incrementa la pressione fiscale. Se invece è una redistribuzione accompagnata da una corrispondente diminuzione della pressione sui ceti medi è neutrale, e se ne può al limite anche parlare.
In ogni caso questo non risolve il problema: non ci possiamo permettere il livello di spesa attuale già da un pezzo. Sia fuori che dentro l'Euro dobbiamo mettere i conti a posto. Lo Stato non può continuare a tassare più della metà del reddito perché un livello d’imposizione fiscale così alto danneggia la crescita, rendendo quindi ancora più difficile riuscire a ripagare il debito esistente.

L’unica strada possibile è diminuire la spesa dello Stato e ridurre le tasse: chi ha già debiti superiori al 100% del proprio reddito non può incrementarli ancora: chi lo suggerisce o non comprende le conseguenze  di un ulteriore indebitamento o è in mala fede.
Non diverte a nessuno dover pagare i debiti delle generazioni passate, ma purtroppo i nostri predecessori sono andati al ristorante e hanno lasciato il conto a noi. L’unica scelta praticabile è pagare, dato che le alternative sono tutte peggiori, dato che portano inevitabilmente ad iperinflazione ed aumento della povertà in misura ben maggiore e per periodi ben più lunghi di quello che succede oggi.

Diamo anche una parte della colpa all’arbitro se proprio dobbiamo, ma almeno riconosciamo che possiamo fare meglio. E se possiamo è dovere civile, morale e per chi crede anche religioso darsi da fare per migliorare.

Thursday 26 July 2012

Economia e rapporti con altre scienze



L’Economia ha assunto negli ultimi decenni una veste sempre più matematica e quantitativa. Certamente non c’è nulla di sbagliato nel cercare di dare rigore scientifico alle teorie economiche riportandole in linguaggio matematico. Uno dei pilastri di cui però si avvale spesso l’economia quantitativa è quello dell’ottimizzazione. Certamente l’idea di base, che cioè ognuno massimizzi la propria utilità e che questo si possa esprimere come la risoluzione di un problema di massimo o minimo, è interessante. Proviamo a considerarlo senza scrivere righe intere di equazioni.
Il problema si complica quando andiamo ad applicare ottimizzazioni nel concreto. Per essere risolvibile in forma chiusa, infatti, un problema di ottimo ha bisogno della derivabilità della funzione obiettivo (il teorema di Lagrange deve reggere).
Questo presuppone anche una forma di funzione che si può risolvere con programmazione lineare o tutt’al più quadratica. Sfortunatamente, i constraint delle curve di utilità rendono spesso il problema irrisolvibile.
Consideriamo infatti una preferenza a più orizzonti: ad esempio una persona che voglia massimizzare il proprio utile immediato senza compromettere quello a lungo termine. Anche nella versione più semplice questo problema crea 2 piani bidimensionali. I punti della frontiera delle scelte saranno posizionati in parte nel piano ‘immediato’ ed in parte in quello ‘a lungo’. Questo rende la funzione in ciascuno dei due piani solo a pezzi concava o convessa, e potrebbe renderla addirittura non continua in alcune parti.
Si vede chiaramente che in condizioni del genere Lagrange non regge: l’equazione non si può perciò risolvere in forma chiusa. E’ possibile in alcuni casi la soluzione per iterazioni, ma questa potrebbe essere un ottimo locale: potrebbe in altre parole esistere una soluzione migliore che l’iterazione non ha trovato.
Un’altra possibilità è seguire un metodo Bayesiano e riconoscere l’utilizzo di conoscenze preesistenti (prior) che si possono utilizzare come constraint di ottimizzazione.
Il problema di ottimizzazione comunque, anche se con Bayes viene ridotto ad un solo piano, può portare a funzioni parzialmente non derivabili (in verità l’insieme di prior perfetti porterebbe alla stessa funzione che avevamo sopra nel piano ‘immediato’).
Questo ci porta all’interazione tra economia ed altre scienze, a partire dalla storia, fino a toccare la filosofia e ricomprendere la logica e l’etica (che potremmo comunque considerare sempre parte della filosofia) e la psicologia.
Questa commistione di conoscenze è la nuova frontiera di un’economia che, non scordando le radici matematiche e scientifiche, riporta il comportamento umano in una dimensione multipla e cerca soluzioni con la logica induttiva, riconoscendo che le situazioni non sono quasi mai uguali, e che le differenze possono impedire l’applicazione di una soluzione che ha funzionato in passato.

Tuesday 5 June 2012

Di decrescite (forse) felici che portano a povertà (certamente) in aumento




Si sente parlare da un po’ dell’inadeguatezza del PIL come misura del benessere di una Nazione. Certo: per sapere che il prodotto non è sinonimo di benessere basta un vocabolario o una ricerca su internet.

Si sono quindi cercate alternative al PIL che descrivano, invece della ricchezza prodotta, il benessere. Finora però gli economisti e non che si sono cimentati in questo agone non sono arrivati a granché, perché si sono scontrati con un problema fino adesso insormontabile: come si può misurare il benessere?

Siccome a molti liceali è stato insegnato a seguire una logica precisa (derivante tra l’altro da Aristotele via Galileo) di solito quando si affronta un problema del genere bisogna cercare innanzitutto una definizione. La domanda diventa dunque: come si definisce il benessere? Finora nessuno è riuscito a dare una risposta convincente a questa domanda.

A questo punto il buon liceale, armato di logica aristotelica, se intellettualmente onesto deve farsi la prossima domanda della sequenza: mi sto facendo la domanda giusta o ce n’è una che mi aiuta a risolvere il problema se solo lo guardo da un altro punto di vista? Questo è quello che viene solitamente definito pensiero laterale: difficilissimo per molti, naturale per altri, ricercato e pagato a peso d’oro da banche d’affari e multinazionali varie, ovvero il diavolo per gli zeloti della decrescita (forse) felice, che nel prosieguo definiremo Lorsignori.

Vedremo dopo se la domanda esiste e che risposta possiamo trovare.

Ebbene, come si è visto, per arrivare fin qui basta la logica del Liceo: un po’ di Galileo, un po’ di Aristotele e il benessere interno lordo è fuori dai giochi, perché il benessere non si può definire in modo oggettivo. In altre parole quello che fa star bene qualcuno può far stare male il suo vicino, e comunque il benessere di più persone si potrebbe sommare ma anche sottrarre. Dovrebbe essere già chiaro quindi che non ci troviamo nell’ambito della scienza (economica o meno), ma tutt’al più nel mezzo di teorie sociologiche quando ne discutiamo. Ricordiamo anche che ‘sociologo’ è una delle offese peggiori per un economista od uno storico, ma questo è un altro discorso.

Quindi coloro, che si definiscano o meno economisti (abbiamo visto che in realtà sono sociologi, ma è una considerazione a latere), che parlano di benesseri interni non si fermano di fronte all’indefinibilità di quello che propongono: da veri sociologi arrivano a dire addirittura come arrivare ad aumentarlo. Come si possa aumentare qualcosa che non si riesce neanche a definire in modo preciso è ovviamente esercizio di pensiero che richiama le dispute sul sesso degli angeli. Ricordiamo che cotali dispute, dopo aver impegnato le più belle menti della filosofia bizantina per qualche secolo, arrivarono alla conclusione che gli angeli non hanno sesso. Nel frattempo Costantinopoli era caduta in mani turche: le discussioni pare si protraessero anche durante l’assedio. A parziale discolpa dei teologi coinvolti ne’ Galileo ne’ Descartes (o Cartesio, alla latina) erano ancora nati, scusa che oggi non si può più accampare. Neanche il buon francescano Occam, scettico quasi radicale, era probabilmente noto agli orientali bizantini.

La ricetta per aumentare il benessere secondo Lorsignori è consumare di meno. Alla domanda (ovvia) quanto meno viene risposto: abbastanza. Il benessere, già confusamente definito, viene quindi aumentato consumando una quantità ancor meno definibile.

La prossima domanda tende a smascherare Lorsignori per quello che effettivamente sono. La domanda è: chi decide quanto è abbastanza per me? Perché se lo decido io va benissimo, ma siamo daccapo. Se voglio qualcosa che altri considerano inutile nessuno può contestarlo. Ne segue che dovrebbe essere una sorta di comitato scelto o addirittura composto direttamente da Lorsignori, magari con crisma di ente statale, che decide e rende obbligatorie le decisioni.

Se ancora ci fosse qualcuno che aveva dubbi adesso è ovvio: Lorsignori sono amanti della pianificazione centralizzata e dell’intervento dello Stato nella vita dei cittadini. Lorsignori quindi non possono essere altro che socialisti o comunisti, o tutt’al più socialisti nazionalisti (magari dei lavoratori). I regimi con pianificazione economica hanno portato finora sicuramente ad un aumento della povertà: sia Cuba che l’Ucraina, in passato grandi produttori agricoli, sono adesso costretti ad importare cibo. E’ difficile dire che questo abbia migliorato il benessere della popolazione.

Smascherati dunque Lorsignori con le sole armi di una logica da scuola superiore, passiamo alla domanda che avevamo posto sopra: c’è un modo di guardare le cose che aiuta a far stare meglio il maggior numero di persone possibili? Fortunatamente questo esiste, anche se non basta più aver fatto il Liceo per saperlo. Guardiamo come diminuire la povertà: pochi definirebbero una diminuzione della povertà come qualcosa che non aumenti il benessere.

Sappiamo dai dati storici che la povertà diminuisce di più quando abbiamo più crescita economica (v. Barro e Sala-i-Martin: Economic Growth). Sappiamo anche che questo non è ovvio: infatti la media potrebbe crescere senza beneficio per i più poveri. Fortunatamente non è così. Chiarifichiamo che meno povertà non significa neanche necessariamente, però, una crescita dell’uguaglianza: infatti i più poveri possono stare meglio senza che la distribuzione del reddito arrivi a beneficiare coloro che non sono ne’ poveri ne’ ricchi.

Crescita economica significa crescita, ebbene sì, proprio del PIL. Creare le condizioni per la crescita del PIL significa quindi sicuramente diminuire la povertà. Se questo sia definibile come aumento del benessere non possiamo però dirlo, in quanto si è visto che il benessere non è stato ancora definito, neanche da Lorsignori. E’ chiaro però dai dati che una crescita inferiore, o addirittura una decrescita, del PIL aumenta la povertà. Anche non sapendo definire esattamente il benessere pensare che questo possa aumentare quando aumenta la povertà pare un esercizio degno dei teologi che discutevano sul sesso degli angeli sotto le cannonate turche.

Come se tutto questo non bastasse si noti che l’argomento principale di Lorsignori, secondo il quale i costi della crescita in termini ambientali e di risorse la renderebbero negativa se considerati, non tiene conto del fatto che molti di questi costi sono già inclusi nei prezzi dei prodotti che impiegano più risorse, aumentandone il prezzo. Laddove non lo fossero, basterebbe includerli. Basta quindi il mercato per risolvere il problema, dato che prezzi più alti non possono non corrispondere a consumi più bassi.

Wednesday 11 April 2012

Lo Stato, il Muratori e i soldi di tutti



Il grande storico settecentesco Ludovico Antonio Muratori riporta nelle sue ‘Antiquitates Italicae Medii Aevi’ la risposta data da un Principe ad una popolazione che aveva chiesto, in termini molto pomposi (‘Assai Cruscanti’, dice il Muratori) la riparazione di un ponte diroccato. Il Principe rispose:

‘E quindi, e quinci e guari rifate ‘l ponte co’ vostri denari’.

Sembra che questa sia diventata, anche se articolata in modo meno ‘Cruscante’, la risposta dello Stato italiano a tutti i vari richiedenti, questuanti e clientes abituali alla richiesta di soldi di Stato.

Chiaramente i richiedenti portano avanti argomentazioni a prima vista condivisibili, come la necessità del sostegno ad una certa industria, o addirittura alle libertà fondamentali, come ultimamente quella di stampa.
Ci sono buoni motivi per spiegare cosa succede quando lo Stato accondiscende a queste richieste.
Diciamo che i soldi siano stati richiesti per sostenere la stampa di partito (esempio degli ultimi tempi).

Lo Stato ha sostanzialmente tre modi (o una combinazione dei tre) per procurarsi i soldi da elargire:

1-Aumentare le tasse. Nel caso di un giornale di partito che leggono in pochi questo significa che anche i cittadini che non lo leggono effettivamente pagano per la sua esistenza. A parte le considerazione sul fatto che questo sia giusto o sbagliato, è evidente che tutti i cittadini, per sostenere un’impresa (un giornale in fondo questo è) in perdita avranno meno soldi da destinare ad altre cose, come ad esempio comprare qualcosa che vogliono (ricordiamo che il giornale non lo volevano, altrimenti non sarebbe stato in crisi) o risparmiare. Nel primo caso un’impresa potenzialmente profittevole vedrà i suoi profitti diminuire o azzerarsi, nel secondo meno credito sarà disponibile per investimenti ad aziende che ne hanno bisogno per restare competitive.

2-Prendere soldi a prestito. Fino a pochi anni fa questa era la scelta principale dello Stato italiano. Sembra sia chiaro a tutti, almeno adesso, che i debiti vanno saldati, e che ora è il momento di farlo.

3-Stampare denaro. Lo Stato italiano non ha, meno male, più questa possibilità, adesso nelle mani della BCE. Se l’avesse, comunque, l’effetto di un aumento della massa monetaria senza aumento della ricchezza prodotta si tradurrebbe nello svilimento del valore della moneta, ovvero inflazione, in tempi più o meno brevi.

E’ ovvio che nessuna delle tre possibilità viste sopra rappresenta un miglioramento della condizione dei cittadini, che vedono il loro potere d’acquisto, il loro reddito disponibile od entrambi calare per effetto della scelta di un Governo di sostenere una causa persa.

Proprio per i motivi descritti sopra speriamo che il Governo continui a rispondere a tutti i vari questuanti di Stato nei termini del Muratori: ‘Rifate ‘l ponte co’ vostri denari’.

Friday 20 January 2012

Se i vecchi vanno in pensione più tardi è più, non meno, facile trovare lavoro per i giovani.

Si sente dire sempre più spesso da persone, soprattutto politici, male informate (o in malafede) che ritardare l’età pensionabile renderebbe più difficile per i giovani trovare lavoro: invece è l’esatto contrario, e lo dimostriamo con argomenti logici e con la teoria economica. Per chi non avesse voglia di leggere tutto una premessa: la logica e la teoria economica, che da questa in fondo deriva, dicono la stessa cosa dei numeri, che riportiamo in fondo.
Prima la logica, che per gli ammiratori della Scuola di economia austriaca è la luce che guida la teoria economica.
Ebbene, affermare che prima vanno in pensione i vecchi, più posti di lavoro si ‘liberano’ per i giovani presuppone che il numero dei posti di lavoro disponibile sia fisso e che i giovani prendono il posto lasciato dai vecchi. Alternativamente la logica potrebbe funzionare se ci fosse una sorta di ‘coda’ per cui ad esempio i sessantenni, al momento del pensionamento, lasciano il posto ai cinquantenni, i cinquantenni di seguito ai quarantenni e così via. Il primo ovvio problema è che quest’ultima ipotesi richiede che le competenze richieste sul lavoro siano costanti o simili nel tempo, tanto da poter essere imparate e perfezionate in modo costante da tutti. Si presuppone anche che gli avanzamenti di carriera avvengano esclusivamente per anzianità e mai, o solo rarissimamente, per merito. Questi difetti logici sono abbastanza gravi, ma prendiamo comunque tutto per buono.
Il vero problema con il ragionamento di cui sopra è che, ammesso come dobbiamo per farlo funzionare che il numero dei posti di lavoro fosse fisso, il tasso di disoccupazione dovrebbe crescere con l’aumento della popolazione. Infatti è ovvio che una popolazione in crescita significa più giovani che entrano nel mondo del lavoro che vecchi che lo lasciano. Il tasso di disoccupazione però non solo non aumenta all’aumentare della popolazione, ma addirittura diminuisce. Il grafico sotto riporta la popolazione italiana (in milioni, scala a destra) ed il tasso di disoccupazione in Italia (in percentuale, scala a sinistra) dal 1983 ad oggi.


In questo periodo tra l’altro non solo si è avuto un aumento della popolazione, evidente dal grafico, ma anche un progressivo aumento dell’età pensionabile. Da una semplice osservazione del grafico appare già chiaro che la disoccupazione non solo non aumenta all’aumentare della popolazione, ma addirittura diminuisce.
Per gli amanti dei numeri la correlazione è -58%.
Esaurita la dimostrazione per assurdo, tanto cara ad Occam (filosofo, non economista: si rassicurino pure i non economisti), chiediamo aiuto alla teoria economica per cercare di spiegare il fenomeno.
Tutti gli economisti, incluso Marx (il fatto che non fosse davvero un economista ignoriamolo) sono d’accordo nel dire che il lavoro crea valore. Questo significa che una maggior quantità di lavoro crea maggior valore, e perciò maggiore crescita. La crescita porta poi ad un aumento della domanda di beni e servizi (dovuta nel nostro caso anche ad un semplice aumento della popolazione: più gente ha bisogno di mangiare, vestirsi etc.) che fa aumentare l’occupazione. Fin qui la teoria economica.
Purtroppo, come al tempo di Galileo gli aristotelici si rifiutavano di guardare i risultati degli esperimenti del grande pisano pur di non dover ammettere che Aristotele (o meglio la loro interpretazione dei suoi scritti) aveva torto, ancora oggi ci saranno coloro che affermeranno che quanto sopra non basta, che è solo teoria (anche se abbiamo riportato numeri) e così via.
Ebbene per essi ci sono studi empirici. Qui citiamo quello del Dipartimento di Industria e Commercio britannico del 2003 (governo laburista: non lo si accusi quindi di essere di destra ultraliberale). A partire da pagina 60 (70 del pdf) viene dimostrato con dati empirici di diversi Paesi che ritardare l’età pensionabile non fa aumentare la disoccupazione giovanile. Agli scettici buona lettura al seguente link: