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Sunday 23 October 2011

L’importanza dell’alternativa: possibili implicazioni della scomparsa del tasso senza rischio (risk-free rate)


In una scelta ponderata si analizzano le varie alternative, poi si sceglie la migliore in confronto alle altre.
In altre parole prendiamo decisioni scegliendo la miglior alternativa disponibile.
Questo semplice processo, oltre ad essere comprensibile perché di buon senso, è alla base delle teorie economiche e, conseguentemente, di quelle di portafoglio. Le scelte di investimento, infatti, sono solitamente ponderate e raramente vengono prese d’impulso.
Il tasso senza rischio rappresenta il tasso che un investitore può aspettarsi di ricevere se non vuol prendere, appunto, alcun rischio. In media esso dovrebbe essere simile al tasso di inflazione. Questo tasso è stato sempre rappresentato dal rendimento delle obbligazioni statali, in quanto si dava per scontato che la probabilità di un fallimento dello Stato fosse così remota da risultare irrisoria.

Il tasso senza rischio diventa così la base delle decisioni di investimento, quello che permette poi di decidere quali rischi prendere a seconda del rendimento atteso. La sua mancanza crea confusione tra chi deve prendere una decisione, e suggerisce a chi non vuole rischi di tenere i soldi (figurativamente) sotto il materasso. Per lo più questo vuol dire mantenere liquidità in conto corrente con rendimenti molto bassi ma con disponibilità immediata di fondi in caso di necessità.

L’effetto è estremizzato in momenti di crisi economica, dato che l’incertezza spinge molti a non volere alcun rischio. La conseguenza, in mancanza di investimenti senza rischio, è quindi un aumento dei fondi nei conti correnti delle banche.
In un periodo di buon funzionamento dell’economia questo si tradurrebbe in maggiori investimenti dato che le banche poi presterebbero i soldi a chi ha intenzione di utilizzarli. Oggi però le banche sono riluttanti a prestare alle imprese per una combinazione di aumento delle sofferenze (imprese che non ripagano i prestiti) e incertezza sulle regole di capitale ( la politica sembra cambiare idea ogni settimana su quanto capitale le banche dovrebbero detenere a garanzia dei prestiti).
Allo stesso tempo anche gli imprenditori sono riluttanti ad aumentare i loro debiti dato che temono che i loro investimenti non vengano remunerati a causa della contrazione economica. Uno degli effetti della crisi è stata proprio la sparizione del tasso senza rischio: il rendimento del debito statale ha iniziato a scontare una parte di rischio di credito (cioè la possibilità che lo Stato non paghi il suo debito). 

Questo effetto, che potrebbe sembrare poco importante, ha invece come abbiamo visto implicazioni fortissime.
Il problema tra l’altro non è limitato all’Italia ne’ all’area Euro. E’ infatti noto che da una parte gli Stati Uniti hanno perduto la AAA nei giudizi delle agenzie di rating, dall’altra anche la Germania comincia a preoccupare e preoccuparsi dato che deve sostenere l’Euro (è di gran lunga il Paese che se ne avvantaggia di più) ma per farlo rischia di dover impiegare risorse tali che chi compra debito tedesco chiederà più interesse proprio per un percepito aumento del rischio di credito (le ultime aste del Bund hanno avuto scarsa domanda e rendimenti sopra il 2%: il segnale è allarmante, anche se potrebbe significare solo una convergenza inevitabile dei rendimenti in vista di una tesoreria comune vista più vicina).

E’ necessario che la politica riparta da qui: ristabilire che il debito dello Stato è effettivamente senza rischio significa creare la certezza di base che può portare al ripristino della fiducia necessario per un’espansione economica.

Al momento purtroppo i leader europei sembrano lontani da questa consapevolezza: infatti da un lato propongono prestiti ponte agli Stati in difficoltà che al massimo possono risolvere crisi di liquidità ma non di solvibilità e dall’altro sembrano spingere per una ricapitalizzazione del sistema bancario. Quest’ultima mossa manda un segnale molto pericoloso: quello che ci si aspetta che alcuni Stati falliscano. Per quale altra eventualità, infatti, si dovrebbero aumentare le riserve? Se in battaglia si rinforzano le seconde linee a scapito delle prime, è razionale pensare che si voglia ripiegare. 

Il nemico in Europa è all’interno, non negli speculatori che, a detta di quei politici che ci hanno portato in questa situazione per incompetenza e mancanza di capacità di risolvere i problemi, sono la causa di tutti i mali. La speculazione è semmai un comodo capro espiatorio da dare in pasto ad elettori che non hanno basi culturali e capacità critiche, ma soprattutto autocritiche (la classe politica l’hanno votata loro) per giungere alla giusta conclusione.

Wednesday 12 October 2011

Grecia e banche: salvataggio o fallimento?

In molti, specialmente nel centro-nord Europa, ritengono che si dovrebbero far fallire gli Stati e le banche perché è immorale salvarle.
Questa potrebbe essere vista come la soluzione giusta, ma è forse la domanda ad essere sbagliata.
Chi poi pensa di poter controllare gli effetti di una bancarotta guardi il grafico: la crisi greca segue temporalmente in modo quasi esatto la cauta di Lehman. Anche se è vero che correlazione non implica rapporto causa-effetto, questa volta almeno la concausa sembra probabile.
La cosa giusta da fare è attuare la soluzione che costi meno alla collettività e poi renderla moralmente accettabile. Proviamo a spiegare con un esempio.
Un anno prima del fallimento Lehman Brothers aveva un valore di mercato di circa 46 miliardi.
Poco prima del fallimento ne valeva appena 6.
Poniamo pure che un salvataggio potesse costare 50 miliardi (stima per eccesso).
Il mancato salvataggio della banca americana, come tutti sanno, ha fatto partire una spirale negativa che si è ripercossa a tutte le controparti: il conto finale è stato di 5.000 miliardi.
In altre parole, per ogni dollaro non speso per salvare Lehman se ne sono dovuti spendere 100 per ripagare i danni causati dal non averlo fatto: se non fosse chiaro in entrambi i casi si parla di soldi della collettività.
Quindi cosa poteva essere fatto diversamente?
Il primo passo è effettuare il salvataggio, dato che come abbiamo visto sarebbe costato molto meno dell’alternativa.
Ovviamente questo significa che lo Stato, essendo quello che aveva immesso il capitale, diventa proprietario dell’azienda, che deve essere risanata e rimessa sul mercato.
Esiste un precedente: in Svezia nei primi anni 90 la situazione era molto simile a quella in cui si ritrovarono gli Stati Uniti nel 2007: bolla immobiliare e credito facile avevano creato panico e perdita di posti di lavoro. Il governo svedese nazionalizzò le banche, le risanò e poi rivendette le quote, ripagando alla fine il costo dell’operazione: secondo alcune stime i contribuenti svedesi avrebbero addirittura guadagnato, e questo senza contare i maggiori costi che avrebbero dovuto affrontare in caso di crack e relativo contagio.
A questo punto occorre però rendere la soluzione moralmente giusta: non si può infatti pretendere che il contribuente metta mano al portafoglio per poi vedere coloro che hanno messo in pericolo la banca continuare a far soldi.
Questo si potrebbe fare incriminando tutti i componenti del top management per bancarotta, effettuando il sequestro conservativo di tutti i loro beni. In modo rapido (massimo un anno) si dovrebbe riuscire a stabilire chi tra gli alti dirigenti è colpevole: per questi si può procedere alla vendita di tutti i loro averi e alla condanna penale. Coloro che dovessero risultare innocenti, invece, avrebbero restituito il controllo del loro patrimonio e sarebbero reintegrati al loro posto di lavoro.
Quanto sopra dovrebbe essere possibile senza neanche cambiare le leggi vigenti: basta applicarle e creare un precedente. In caso non fosse possibile adesso, le leggi andrebbero aggiustate di conseguenza.
Naturalmente quest’operazione è leggermente più complicata per una nazione. Il punto principale è riconoscere che i politici che portano una nazione alla rovina sono colpevoli e vanno condannati come i dirigenti che portano un’azienda alla bancarotta. Per loro quindi messa in stato d’accusa e sequestro preventivo di tutti i beni.
Gli amministratori dello Stato sarebbero quindi per un periodo di tempo coloro che hanno messo i soldi per salvarlo: nel caso della Grecia l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea ed il Fondo Monetario Internazionale.
Questi dovrebbero portare avanti una ricerca su due punti fondamentali: il mancato pagamento delle tasse e le assunzioni in eccesso nella Pubblica Amministrazione.
Ai grandi evasori andrebbe applicato il trattamento dei politici: condanna penale e sequestro dei beni. Gli impiegati in eccesso andrebbero licenziati: hanno comunque ottenuto il loro lavoro in modo poco trasparente e probabilmente con meccanismi di voto di scambio se non di corruzione. Ovviamente i licenziamenti andrebbero effettuati solo dopo un concorso regolare e trasparente che riassuma solo il numero di dipendenti pubblici necessari, per evitare che restino proprio coloro che hanno avuto il lavoro per amicizie e protezioni poco pulite.
Tutto questo però non assolve i cittadini greci per aver votato secondo criteri di convenienza a breve termine causando problemi alle generazioni dei loro figli e nipoti: per questo è giusto che, finché lo Stato non è risanato, venga sospeso il voto. Alla fine anche gli azionisti delle banche salvate, tutt’al più colpevoli di mancata vigilanza, perdono tutto quello che avevano investito.
In futuro, per evitare il ripetersi di crisi sistemiche, è necessario il controllo della liquidità nel sistema, che facilita il debito e la creazione di bolle speculative. Inoltre serve un’autorità che possa operare questi controlli su scala sovranazionale. La BCE è un esempio da seguire in questo senso. Proposte per maggiori ambiti di intervento di Eurostat nel controllare i conti dei singoli stati, per ora bocciate, vanno senz’altro riprese ed approvate.